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Testi In questa sezione sono raccolti alcuni testi pubblicati da Massimo Ghirelli. Il giorno in cui gli immigrati lasciarono l'Italia (1999) Epidemia di pregiudizi (1999) Durban: il razzismo della Conferenza (2002) Una tela a colori (2002) Immaginate...(2002) Analizzare l’immagine del sud: “L’uomo Del Monte” (2003) I muri dentro (2008) Cooperazione, una chiave per la politica internazionale (2012) Fake news, un’infodemia globale (2020)
Il giorno in cui gli immigrati lasciarono l'Italia (Diario, 1999) Solo il 9,3 per cento degli italiani affermano che Dieci minuti dopo, la signora Franca era già in macchina con i bambini. Ci voleva meno di un quarto d’ora fino alla scuola, e quella mattina il traffico era stranamente ridotto. Non però davanti all’istituto, dove le automobili sostavano a decine, in seconda e addirittura in terza fila: i bambini tutti fuori, i genitori raccolti in capannelli a discutere, le insegnanti piazzate davanti ai cancelli a sbarrare l’entrata. “Ma cosa succede?” “ La scuola è chiusa. Pare che il Provveditorato abbia soppresso alcune sezioni, per mancanza di bambini” “Come, a metà anno?”. Sembrava che tutti gli alunni di provenienza straniera, che nelle elementari erano quasi il 40 per cento dei bambini dell’istituto, fossero spariti, e con loro le loro famiglie. Senza studenti, metà delle classi rimanevano sotto il numero minimo: e gli insegnanti rischiavano di perdere il posto, e andare a spasso… Affidati i bambini alla mamma di un compagno di scuola, che si era offerti di tenerli a casa per la mattinata, la signora Franca telefonò a casa, per accertarsi che Felipe, il filippino che accudiva il nonno, fosse arrivato. Il nonno – che era un po’ svanito, ma al mattino di solito sembrava quasi normale - era agitatissimo: “No che non è arrivato! E adesso chi mi accompagna a prendere la pensione? Oggi è l’ultimo giorno!”. “Non ti preoccupare, papà, ci penso io; avverto l’ufficio e vengo a prenderti a casa”. Al telefono del lavoro rispose direttamente il capoufficio, che era già furioso perché mancavano la metà delle segretarie (“Con la scusa dei bambini, dice che non trovano più le baby sitter”). Insomma, la polacca, il filippino, i ragazzini della scuola: praticamente gli extracomunitari erano spariti dappertutto. La signora Franca era sbalordita, e cominciava a innervosirsi. Forse dopo la posta, pensò bene, era il caso di fare un po’ di spesa: se Bogena non fosse tornata prima di pranzo… Il nonno sembrava aver già perso la lucidità del mattino: lo trovò seduto in ingresso, senza il calzino sinistro, la camicia abbottonata tutta storta, la barba non fatta. “Come faccio senza Felipe? Ma tu sai dov’è andato?” “E’ sparito, sono spariti tutti!”. Un’ora dopo erano alla posta, ma anche lì li aspettava una brutta sorpresa: un gruppo di anziani aveva improvvisato una specie di sit-in davanti agli sportelli, e qualcuno più arzillo saltellava ansimando: “Chi non salta pensionato è, è!”. Era successo che l’Inps aveva trattenuto cautelativamente tutte le pensioni del mese; avevano calcolato le mancate contribuzioni dei lavoratori immigrati scomparsi nel nulla e avevano deciso di sospendere i versamenti fino a data da destinarsi… Non restava che tornare a casa; anche perché il nonno dava ormai i numeri, e più tardi bisognava anche recuperare i bambini parcheggiati dai loro amichetti. E l’ufficio della signora Franca? Di fronte al portone, più che seduto, accasciato sul gradino del marciapiede, in un bagno di sudore, il signor Gregorio li accolse con una smorfia che voleva imitare un malinconico sorriso: “Bella giornata, eh?”. Era tornato prima dal lavoro, perché al cantiere, dove era arrivato tardi per l’appuntamento, non c’erano più gli operai: tutti gli edili marocchini, le maestranze jugoslave e anche i due contabili pakistani, erano assenti ingiustificati. Perfino il vigilante, un ragazzone rumeno che entrava a malapena nella divisa, si era involato. Il cantiere era fermo, e i costruttori, i fratelli Caltabidone, stavano perdendo un milione per ogni ora di lavoro mancato… Lasciato il nonno dalla portiera piangente, Gregorio S. cercò di consolare la moglie, stringendola a sé: “Sai che facciamo? Andiamo a mangiare un boccone qui vicino, da Righetto, alla pizzeria…”. La signora Franca non aveva affatto voglia di coccole: “Non mi porti mai fuori a cena, e proprio oggi, che sono ridotta come una zingara…”. Però la fame cominciava a farsi sentire anche per lei: così andarono alla pizzeria. Ma da Righetto era rimasto solo Enrico, il proprietario: pizzettaro e aiutante, entrambi egiziani, non si erano presentati al lavoro, e il forno era rimasto spento. Provarono alla trattoria all’angolo: ma aveva chiuso per mancanza di camerieri ai tavoli. E naturalmente, manco a dirlo, il ristorantino cinese, due isolati più avanti, quello famoso per la zuppa di pinne di pescecane, non aveva nemmeno aperto… I cinesi, quella mattina, erano evaporati, proprio come ravioli al vapore, anche dal circondario di Prato. All’alba, tutta la provincia, e in particolare San Donnino, un sobborgo di Campi Bisenzio, si era svegliata in un insolito silenzio: oltre duemila telai avevano inopinatamente smesso di sferragliare – come facevano, giorno e notte, ventiquattrore su ventiquattro, trecentosessantacinque giorni all’anno – in altrettante piccole aziende gestite dagli oltre 15mila immigrati cinesi della zona; infaticabili produttori di maglie, borse, cinture e pellami di tutti i generi, e fornitori di migliaia di grossisti e negozi in tutta la regione. Nei capannoni, insieme officine e abitazioni, soffocati dall’odore aspro del cuoio, le macchine da cucire, le vecchie Singer cromate o i nuovi modelli, luccicavano sinistramente. Anche lì le scuole si erano svuotate, gli alimentari avevano buttato quintali di riso, i bar avevano perso i loro clienti, e avevano chiuso tutti i locali del karaoke, dove i pronipoti di Mao, con con la ‘elle’ moscia e uno spiccato accento pratese, imitavano Albano e Orietta Berti: “Finché la balca va, lascela andale…”. A Batisolo della Morra, nelle Langhe, sulle colline che furono di Pavese e di Beppe Fenoglio, l’enologo Sergio G. si aggirava smarrito lungo i filari del Barolo e del Barbaresco. Toccava disperato gli acini che stavano già perdendo la loro consistenza e il loro colore dorato, tirava via le sottili, ma tenaci ragnatele che già avvolgevano alcune foglie, raccoglieva, a terra, i grappoli rovinati dagli uccelli. Gli addetti stagionali alla vendemmia, due su tre di origine extracomunitaria, avevano lasciato le vigne e abbandonato ai piedi delle piante i loro taglierini; diverse centinaia di immigrati, somali e senegalesi, per lo più, che da anni si erano specializzati nel settore, e tornavano stagione dopo stagione a sfidare il freddo delle valli, s’erano persi nella nebbia del mattino: “Erano musulmani – e l’enologo si strappava i capelli come tralci ritorti – il vino non lo bevevano, ma sapevano lavorarlo come pochi!”. A Mazara del Vallo, nel Trapanese, gli abitanti erano scesi tutti giù al porto, le donne col velo nero, le ragazze coi capelli al vento, in piedi sul molo come le comparse de “La terra trema”: nove pescherecci su dieci non erano potuti uscire per mancanza di uomini. S’erano eclissati non soltanto i pescatori, ma tutti i residenti tunisini di quella che fino al mattino era la città più ‘araba’ d’Europa. Nella ‘casbah’, il quartiere della città vecchia abitato prevalentemente dagli immigrati, non si sentivano più i passi veloci dei bambini, giù dalle scale della scuola araba, né il canto lamentoso del muezzin, con il suo lieve accento siciliano. Nella sede della “Likà”, l’associazione mista italo-tunisina, che organizzava feste e scambi interculturali, alcuni vecchi sindacalisti mazaresi staccavano malinconicamente i manifesti preparati per il ramadhan. Sulla banchina, le cassette del pesce erano vuote; le reti pendevano tristi dagli argani, mentre gli armatori salivano e scendevano dalle barche. come per controllare che i loro pescatori non si fossero nascosti nelle stive: “Né la bonazza né lo malutempo ci fece mai restari a terra accussì, tutti quanti simo!”. Ma anche in altre città d’Italia l’inopinata sparizione degli immigrati aveva creato il caos più completo: nel Modenese, le fabbriche di piastrelle di ceramica erano state chiuse per l’improvvisa mancanza degli operai africani; in provincia di Parma, la scomparsa degli indiani Sik, abilissimi
nell’allevamento e nella cura delle vacche – considerato il rispetto manifestato verso questi nobili animali nella loro cultura – aveva messo in crisi non soltanto la distribuzione del latte, ma anche la lavorazione di diversi tipi di formaggio, essenziali per l’economia locale; analoga situazione a Mondragone, in Campania, dove i ghanesi impiegati nell’allevamento delle bufale avevano disertato le fattorie, e la produzione delle mozzarelle si era bloccata da un giorno all’altro. da vino ad appassire sui tralci. degli operai specializzati, in gran parte centro-africani: in tutto il Veneto, rimasero vacanti circa 31mila posti di lavoro – posti per i quali gli imprenditori non erano mai riusciti a trovare candidati tra gli italiani. del comparto. Nelle provincie di Trento e di Bolzano, i minatori stagionali macedoni – che avevano sostituito la tradizionale migrazione portoghese – avevano lasciato le miniere di granito. A Brescia, la capitale del tondino, erano state nove le fabbriche metalmeccaniche costrette a fermare gli impianti e sospendere le forniture per l’inaspettata défaillance degli oltre 15mila lavoratori immigrati impiegati nella zona. di italiani, era scomparso come gli altri stranieri; e con lui le chiavi dell’ufficio, e ogni possibilità di lavoro per il gruppetto di giovani che stazionava sotto i portici. di padelle antiaderenti e manici di mocio vileda, attraversò la città fino al consolato delle Isole Mauritius, reclamando il ritorno delle loro fidate collaboratrici domestiche. vendita delle pizzette durante l’intervallo. A Roma, l’Osservatore Romano uscì il pomeriggio in edizione straordinaria, con un titolo a nove colonne sulle oltre duecento parrocchie rimaste senza sacerdote per l’immotivata assenza dei preti stranieri; A Genova, la città più anziana della penisola, la Protezione civile dovette intervenire per assistere i vecchietti arterosclerotici, che privati dei loro accompagnatori asiatici, giravano per vicoli e carrugi senza più riuscire a trovare la strada di casa. A Firenze, oltre 150 ristoranti cinesi, abbandonati, erano stati occupati dai tifosi viola, esasperati per la scomparsa di Batituta e degli altri ‘stranieri’ della squadra. piccoli imprenditori locali, convinti che fosse stato lui – come aveva minacciato tante volte – a far andar via tutti i lavoratori extracomunitari, rendendo impossibile ogni attività produttiva… Quella sera il ragioniere dello Stato, Monorchio, intervistato a reti unificate, fornì un quadro dettagliato della catastrofe provocata dalla sparizione degli immigrati: 540mila lavoratori dipendenti in meno; 20mila lavoratori autonomi scomparsi; oltre 150mila famiglie italiane abbandonate dalle 60mila collaboratrici domestiche extracomunitarie; un ‘buco’ di 166mila avviati al lavoro in meno ogni anno; una voragine previdenziale di 2.400 miliardi di contributi mancati, con fosche previsioni per l’avvenire di oltre 9 milioni di pensionati. La ministra Turco, accanto a lui, snocciolava le cifre degli Affari sociali: 80mila banchi vuoti nelle scuole, 120mila mariti o mogli senza i rispettivi coniugi stranieri, un ulteriore calo demografico di quasi 2 punti in un paese che conta già una percentuale di anziani del 23 per cento, tra le più alte del mondo, destinata a raddoppiare in meno di cinquant’anni. In un angolo, con le occhiaie più profonde del solito, il ministro Visco, nell’atto di annunciare un aumento delle tasse del 17 per cento, scoppiò in un pianto dirotto… Ma Gregorio S. e sua moglie, la signora Franca, non stavano ascoltando il telegiornale: litigavano ormai da due ore, rinfacciandosi il vergognoso disordine della casa, rimproverandosi per non aver fatto la spesa, biasimandosi l’un l’altra per aver abbandonato i bambini a casa degli amici. Protestando, lui, per la cena fredda e la camicia non stirata; e lamentandosi, lei, perché il capoufficio l’avrebbe licenziata e lei non intendeva certo tornare a fare la casalinga e lui si illudeva se pensava di aver trovato una serva e quel rimbambito del nonno non era certo suo padre e se lo doveva sorbire lui e… farne spilloni da infilzare nel cuscino del marito; e il nonno si rigirava nel letto, invocando sommessamente il suo filippino.
* Luoghi, cifre e circostanze riportate dall’autore non sono di fantasia. I dati sono stati raccolti dall’Archivio dell’Immigrazione di Roma e dal Dossier statistico della Caritas 1999.
Epidemia di pregiudizi (1999) Il pregiudizio è un giudizio aprioristico formulato prima dell’esame e senza la conoscenza dei fatti. (Allport, 1956) Messicano: “rozzo, volgare, chiassoso, ridicolo”. che nella sua versione in spagnolo, come racconta Pino Cacucci in una sua corrispondenza messicana, contiene queste e altre perle lessicali. Così, mentre meticcio - per questo simpatico dizionario di fine millennio - è sinonimo di “ibrido, incrociato, bastardo”, occidentale significa invece “bianco, colto, civilizzato”. Tutto normale. L’antropologo Lombardi Satriani dice che i pregiudizi sono soprattutto categorie per orientarsi, per facilitare la comunicazione. Umberto Melotti, studioso dei fenomeni migratori, ricorda che, in tempi lontani, il pregiudizio aveva una funzione vitale per la sopravvivenza di fronte ai pericoli sconosciuti. Altri ancora vedono nel pregiudizio uno strumento per identificare se stessi e il proprio gruppo rispetto agli altri.
Certo, se la funzione dei pregiudizi è quella di infondere sicurezza e fornire un supporto per la costruzione della propria identità - individuale e di gruppo - nel mondo attuale il suo spazio è destinato sicuramente ad allargarsi. In una società nella quale ciascuno è - almeno in potenza - libero di costruirsi la sua identità, il pregiudizio diventa una sorta di cemento coesivo del gruppo. Il caleidoscopio di identità che caratterizza il nostro sistema sociale moltiplica quindi le occasioni di pregiudizio. E in Italia? La nostra società, così provinciale, così poco curiosa, così ignorante di realtà culturali diverse, sembra essere particolarmente predisposta ai pregiudizi: “Con gli altri - dice Ottavia Schmidt di Frieberg, una studiosa che vive a Parigi - con gli immigrati, gli stranieri, i rappresentanti di differenti culture, abbiamo un rapporto ambivalente, una interazione che alterna curiosità e rifiuto, solidarietà e razzismo”. La stessa contraddizione che si è registrata recentemente con i profughi del Kossovo: dallo slancio di generosità della missione Arcobaleno, si trascorre senza quasi rendersene conto ai pregiudizi verso gli zingari espulsi da quella stessa guerra. di censura del comportamento degli altri, un desiderio di rivalsa e di vendetta.” Noi questa malattia occulta abbiamo cominciato a identificarla e diagnosticarla nei mezzi di comunicazione: convinti della centralità del loro ruolo nella diffusione della epidemia di pregiudizi che sembra aver colpito il nostro paese negli ultimi anni, forse proprio in concomitanza con il recente fenomeno dell'immigrazione extracomunitaria. Una peste che trova peraltro sempre nuovi “diversi” da colpire: ai pregiudizi contro i meridionali ("non si affitta ai napoletani"), abbiamo visto aggiungersi quelli contro gli omosessuali, e poi verso i tossicodipendenti, gli handicappati, le donne, i vecchi, e adesso appunto gli stranieri. Per il medico Aldo Fari, un epidemiologo impegnato nella medicina delle migrazioni, ”Sono i mass media ad essere ammalati di peste”; e anche Luigi Ferrajoli, che ne ha scritto sul "manifesto", sottolinea il ruolo negativo dei mezzi di comunicazione di massa, che si traduce in un circolo perverso: “I media alimentano l’insicurezza, e questa produce repressione, che a sua volta giustifica l’insicurezza e l’amplifica: il diverso è percepito come un potenziale nemico". Una ricerca dell'Università di Roma ha rilevato che il 69 per cento degli stranieri si sente offeso almeno una volta a settimana dai media. Indubbiamente le immagini hanno un posto sempre più rilevante nella formazione dei nostri atteggiamenti: e non di rado , anche quando non trasmettono messaggi esplicitamente razzisti, , si fanno veicolo di pregiudizi, di luoghi comuni, di stereotipi. Prendiamo la pubblicità, forse lo strumento di maggiore efficacia comunicativa, con la sua ossessiva presenza, la reiterazione di jingle e di slogan, l’identificazione con famosi testimonial, la sua capacità di incamerare valori e modelli. Sono queste caratteristiche a farne veicolo ideale per la diffusione degli stereotipi. Non è che spot e manifesti determinino - se non in casi patologici - condizionamenti meccanici nel pubblico; ma contribuiscono a far accettare stili di vita e modelli di comportamento, collegando un certo prodotto a valori condivisi dalla gente. Quale strumento migliore, per far leva sullo spettatore, di quei cliché che costituiscono il punto di riferimento di ogni comunità o gruppo sociale? Ecco quindi il “buon selvaggio” di una importante marca di gelati, la Sammontana, appena protetto dall’ironia; l’omosessuale di una famosa ditta di caffè, Segafredo, disegnato con toni caricaturali; l’inevitabile arabo con harem incorporato, che torna ogni anno alla Fiera degli sposi; la gustosa fanciulla di colore della Suchard, pronta a farsi “assaggiare” come un cioccolatino dal consumatore bianco. L’uomo Del Monte ha detto sì: e naturalmente i contadini del paese - sarà l’Indonesia, il Borneo o la mitica Polinesia? - hanno arato, seminato, irrigato, difeso le piante dal maltempo e dagli insetti: ma nella loro beata ignoranza non sanno, poverini, quando è l’ora di raccogliere. E corrono in corteo dall’uomo Del Monte - quello con l’abito bianco, con il panama coloniale, con l’aria da Indiana Jones - per farsi dire di sì. Soltanto lui, recita la voce fuori campo, “sa rubare l’anima alla frutta”. E’ solo lui, assiso su una specie di trono, a decidere; e solo la Del Monte, multinazionale americana, a guadagnare. Per gli indigeni, c’è la grande soddisfazione di averli fatti contenti: vedete come si rotolano felici nell’acqua, come corrono e saltano, come sorridono rassicuranti; anche se chi consumerà - tre bei ragazzi europei in costume e pareo firmato - non sono certo loro; chi fatturerà, non sono sicuramente loro che hanno lavorato. Il Sud del mondo, questa è l’immagine proposta, è un posto pieno di gente mite da sfruttare; brave persone, per carità, ma che senza di noi, non sanno nemmeno quando maturano gli ananassi. Un posto pieno di belle cose da consumare, che non appartengono a chi ci vive, ma a chi ha i soldi per comprarle, e il know how per commercializzarle. Nel ben ordinato mondo delle multinazionali, ognuno ha il suo ruolo, ed è felice di stare al suo posto. Tra le immagini pubblicitarie, occupano un ruolo importante quelle relative al turismo, proposte dalle agenzie di viaggi. L'antropologa Clara Gallini ha studiato in dettaglio le illustrazioni dei depliant turistici, come esempio particolarmente pregnante di "immagine dell'Altro". Chiunque può farne prova in una qualsiasi agenzia: le illustrazioni propongono invariabilmente un'unica immagine dei locali, colti quasi sempre nell'atto di porgerci, sorridendo amabilmente, i fiori, i frutti e le bevande della loro terra: Anche in questo caso sembra proprio che gli abitanti di quei paesi - naturalmente tutti giovani e belli - non vivano se non per offrire i loro prodotti al turista occidentale. A che altro servono, d'altronde, gli indigeni, e soprattutto le sinuose e poco vestite bellezze locali, promesse d'altre offerte e di accattivanti disponibilità? Se i depliant turistici sono il vero paradiso dei luoghi comuni, di solito conditi d'un po' di esotismo, lo stereotipo culturale trova il suo spazio anche nelle pubblicazioni meno sospette. Per esempio la "Settimana enigmistica", una delle pubblicazioni periodiche più diffuse, con un pubblico di fedeli lettori estremamente eterogeneo. Un giornale che può vantare - com'era scritto un tempo in copertina - decine di imitazioni: ma nessuna capace di concentrare in ogni numero tanti allegri pregiudizi etnici. Un mondo familiare, popolato da figure talmente consuete da esserci diventate care - come tutte le immagini che fino dall'infanzia sono venute componendo il nostro panorama fantastico. Un armamentario fatto di arabi astuti e fanatici, tedeschi mangia crauti, ebrei avidi e avari, cannibali con l'inevitabile pentolone, messicani intenti a fare la siesta sotto il sombrero: se poi ci li ripropone (in un altro notissimo spot pubblicitario) l'Estathè, unica bevanda capace di vincere la loro pigrizia e attirarli fin sulla torre di Pisa, è solo perché può dare per scontato lo stereotipo, e tutti capiscono il gioco. Così, sotto vecchi scherzi e battute, si conferma e si tramanda, di generazione in generazione, un certo immaginario razzista: figure e modi di pensare apparentemente innocui, maschere innocenti: se non si fissassero nella profondità della nostra coscienza, pronte a riaffiorare nel momento meno opportuno. Per esempio fra compagni di classe e di gioco, o nel pieno di un ingorgo stradale, in un graffito metropolitano o sullo striscione d'uno stadio di calcio. Ecco allora che la maschera scopre, dietro il sorriso, un ghigno poco rassicurante, o mostra addirittura il cipiglio dell'intolleranza, lo sguardo truce della violenza. Ma anche l'occhio tenero dei cartoni animati non offre panorami meno stereotipati: dalle jene del "Re Leone" al mostro di "Bella e la bestia", è tutto un ventaglio di 'diversità' proposte ai giovanissimi spettatori. Il caso più famoso è quello di "Aladdin", il cartone tratto dalla favola del Genio della lampada: al suo apparire, provocò negli Stati Uniti le più vibranti proteste della comunità araba, per l'immagine decisamente negativa che ne emergeva, sin dai titoli di testa; dove si parlava di taglio delle mani e altre simpatiche usanze di quei paesi. Esagerazioni politically correct? Andate a rivedervi i primi cinque minuti del film, zeppi di ladruncoli, imbroglioni, traditori, incantatori di serpenti, cammelli, fachiri e bajadere. Un concentrato di quell'Oriente immaginario che ha per secoli falsato il nostro sguardo nei confronti della cultura araba. Manca solo il fanatico terrorista: ma a quello ci pensano James Bond o il generale di ferro interpretato da Bruce Willis nel suo ultimo film d'azione, "Assedio a New York". La produzione Disney più recente, da "Pocahontas" al "Gobbo di Notre Dame" (con l'incontro di due diversità molto consapevoli, quella del deforme campanaro e della bella zingara Esmeralda), sembra fare più attenzione a queste sbandate, anche se non rinuncia al facile cliché per catturare il consenso di grandi e piccoli spettatori. D'altronde, il fratello maggiore dei cartoon, il fumetto, è stato un antesignano della stereotipizzazione culturale, essendo nato proprio nell'epoca della scoperta di massa delle culture d'oltremare. In particolare il fumetto d'avventura: da Topolino, spesso alle prese con indigeni da caricatura, al mitico Tin Tin, quasi sempre immerso in ambienti e vicende di sapore coloniale. E se l'Uomo mascherato azzardava un certo rispetto, sia pure venato di paternalismo, verso i pigmei della sua fantastica giungla bengalese (la confusione è dell'autore), Tarzan o i nostri Cino e Franco non si vergognavano di insultare i nativi delle foreste teatro delle loro avventure. S'è dovuto aspettare Hugo Pratt per restituire dignità ai Masai o ai predoni del deserto. Ma nelle pubblicazioni di serie B, quelle che si spingono ai limiti della pornografia, ma non rinunciano al pubblico delle avventure, è ancora possibile trovare "sporchi negri" e grassi arabi sempre in cerca di bellezze bianche per i loro improbabili harem. La televisione, da questo punto di vista, è più prudente: non solo perché, come ricordava McLuhan, è un mezzo di comunicazione "freddo"; ma anche perché deve rivolgersi a un'audience più ampia ed eterogenea. Oltre che nella pubblicità, pregiudizi e stereotipi trovano spazio nella fiction, e soprattutto nei telefilm e nelle soap operas, specialmente quelle provenienti da paesi più ingenui, come Messico o Brasile. Ma il campo più interessante dei pregiudizi - quello più delicato, e difficile da analizzare - è senz'altro l'informazione. Qui non è tanto il messaggio l'elemento da interpretare, quanto le altre componenti del processo di comunicazione: le fonti, i canali, i destinatari, lo stesso palinsesto complessivo. Sono le scelte di impaginazione, di fascia oraria, di pubblico cui rivolgersi a contare. E sono i vizi d'origine del giornalismo dei grandi mezzi di massa - la superficialità, l'episodicità, il sensazionalismo - a determinare il carattere stereotipato di certe immagini. Come quelle che "Nonsolonero" aveva raggruppato sotto l'ironica etichetta dell' "immigrato elettronico" (i.e.): una figura senza dimensioni né spessore individuale, costretta a compiere gesti ripetitivi, abitare sempre gli stessi 'non luoghi', vivere sempre gli stessi disagi, creare sempre gli stessi problemi: l'immigrato, quasi sempre maschio e di colore preferibilmente scuro, arriva, arriva sempre, anche se magari è in Italia da vent'anni; si aggira smarrito in qualche stazione, anche se ha un lavoro e una casa come tutti; mostra il passaporto alla polizia, anche se un permesso di soggiorno e forse è già cittadino italiano; dorme sotto i ponti, o in baracche senza tetto, anche se può pagarsi un appartamento decente. Alla sera, dopo aver concluso la sua giornata mediatica su una sbiadita fotografia in cronaca, il povero i. e., steso su un pagliericcio in qualche tugurio, guarda triste in macchina, con lo sguardo rivolto allo spettatore, come per dire: "Posso aggirarmi smarrito anche domani?".
Ma è forse la stampa quella che negli ultimi tempi sta dando il peggio di sè nell'immagine che propone degli extracomunitari: quelli che potremmo definire "immigratini di piombo": di piombo perché stampati dalle rotative dei giornali; ma anche perché sono curiosamente militarizzati. Il lessico usato - e non importa quale sia il colore politico del giornale - è proprio quello militare: l'immigratino di piombo invade. Raramente arriva da solo, fa sempre parte di un esercito di immigrati, talora di un'orda, come quelle dei barbari. Recentissimo un titolo di Repubblica: L'esercito dei regolari - che probabilmente vengono ad aggredirci con i loro permessi di soggiorno spianati contro di noi. Negli anni, attraverso i titoli dei quotidiani, si compie un vero percorso di guerra: dalla caccia grossa al Carnevale di Firenze, alla saga di San Salvario, dai fuochi di Villa Literno al progrom di Stornara, nelle Puglie, o agli stupri sulla riviera romagnola; dalla rivolta di Padova alla guerra delle panchine di Treviso (se le tiravano appresso? No, era il sindaco che le voleva togliere perchè gli immigrati ci dormivano sopra). Numerosi i Bronx, come vengono definiti interi quartieri di Roma, di Milano o di Palermo. Dell'ultima estate, lo sbarco di trecento curdi in Calabria, con chiare reminiscenze risorgimentali (eran giovani e forti): ci invaderanno, si scaglioneranno uno per ogni comune calabro? Più che cronache, bollettini di guerra. E' così che cinema e televisione, fumetti e cartoni animati, pubblicità e giornali rafforzano e diffondono quelli che a lungo andare diventano luoghi comuni, arredamenti di uno spazio mentale angusto, chiuso tra le pareti del pregiudizio, incapace di guardare fuori di sè: invadono le nostre case, ci rubano il lavoro, fanno troppi figli, portano le malattie, sono tutti analfabeti, sono tutti delinquenti. E il pregiudizio non alligna soltanto nell'uomo della strada (o nel suo omologo mediatico, la casalinga di Voghera): trova eco anche nell'interlocutore politico , pronto a catturare il consenso dell'opinione pubblica attraverso un uso altrettanto spregiudicato del luogo comune. Così, se la destra postfascista non nasconde la sua omofobia nemmeno nelle esternazioni dei suoi dirigenti nazionali, un prestigioso dirigente del Pd, Massimo D'Alema, per mostrare tutto il suo disprezzo verso i giornalisti della Sala stampa di Montecitorio, non trova di meglio che definirla "un suk", un mercato arabo. Per i leghisti, poi, il pregiudizio è una scienza: "E' chiaro che la criminalità è legata all'immigrazione - ha ribadito Umberto Bossi nel corso di una recente fiaccolata contro i clandestini - E questa non è una mia idea, ma un assioma sociologico" Il diverso, insomma, fa paura. Il pregiudizio assume in questo caso la funzione di proteggerci, filtrando l'immagine dell'Altro - in particolare, la gente di colore - attraverso categorie che in qualche modo lo rendono accettabile, o addirittura protagonista della comunicazione di massa. La più antica, sin dai tempi del "Negro Musical Comic" d'inizio secolo, è la simpatia: la faccia sempre sorridente del pagliaccio, pronto a far ridere il padrone bianco con mille smorfie; il nero ingenuo e primitivo, che nella storia del consumo ha pubblicizzato cioccolato e dentifrici, ha calcato le scene del music-hall con Cab Calloway, suonato la tromba di Louis Armstrong, sorriso con i dentoni di Hanry Salvador; sempre con la musica nelle vene e il ritmo nel sangue - tanto siamo noi a dirigere l'orchestra. Roba passata? E la celebre risata di Eddie Murphy, o il simpatico Idris della nostra domenica sportiva, o ancora gli ammiccamenti esagerati del Tartufon? Ve lo immaginate un cameriere banco in marsina a smorfieggiare per un pubblico
di neri? Pregiudizi come filtri per proteggersi dalla diversità, armi per difendersi dalla minaccia di chi pone in discussione quanto abbiamo precariamente conquistato, meccanismi sociali e psicologici per evitare di mettere in crisi la nostra debole identità, costruita sull'esclusione: per fortuna, c'è sempre qualcuno più meridionale di noi, più nero di noi, più diverso di noi.
Sapete cosa dicono a Napoli, per stigmatizzare un cafone, uno che viene dalla provincia? "E' arrivato 'o treno 'e Foggia". (dicembre 1999)
Durban: il razzismo della Conferenza (2002)
E’ passato un anno da quando, nel settembre 2001, si è tenuta a Durban,
in Sudafrica, la Terza Conferenza delle Nazioni Unite contro il Razzismo, le discriminazioni razziali, la xenofobia e la correlata intolleranza.
E’ stata la prima delle grandi Conferenze internazionali a tenersi nel nuovo millennio, ed è particolarmente significativo che si sia svolta proprio in Sudafrica: uno dei paesi che ha più sofferto delle discriminazioni razziali; la nazione che con il regime dell’Apartheid (definito dalle stesse Nazioni Unite “un crimine contro l’umanità”) aveva tradotto in istituzione, in legge dello Stato, la separazione e l’odio razziale. Il naufragio della Conferenza Il naufragio della Conferenza mondiale sul razzismo, proprio alla vigilia dei tragici avvenimenti dell’11 settembre, ha acquistato un significato che va molto al di là degli stessi risultati del consesso. Il fallimento, reso evidente dal ritiro delle delegazioni statunitense e israeliana a metà lavori, era stato a mala pena velato da una fragile operazione diplomatica, condotta sotto la regia del Presidente della Conferenza, la signora Zuma – già Ministro degli Esteri del Sudafrica. L’Assemblea aveva adottato due documenti di compromesso sulle questioni più spinose: il problema palestinese e quello delle responsabilità e degli eventuali ‘risarcimenti’ per i crimini del passato. I risultati di Durban In realtà, dalla Conferenza di Durban, che aveva visto l’attiva partecipazione di oltre cento rappresentanze governative, e alla quale si era affiancato un affollato Forum delle Organizzazioni Non Governative (Ong), erano usciti due documenti importanti: la “Political Declaration” e le “General Conclusions”, articolate su diverse sezioni – che sostanzialmente si proponevano come linee guida per una azione più efficace ed incisiva contro tutte le espressioni di razzismo, discriminazione ed intolleranza; prendendo spunto dalle best practices sperimentate nei diversi paesi, e confrontandosi con i problemi connessi ai nuovi strumenti di comunicazione, alle forme contemporanee di riduzione in schiavitù, ai conflitti etnici, alla xenofobia contro gli immigrati. Quello che quindi ha reso veramente amara la lezione di Durban, ancora prima della tragedia delle Torri gemelle – che a noi, come ad altri osservatori, non è sembrata senza relazioni con quanto accaduto alla Conferenza – è stato proprio il rifiuto del dialogo. Eppure In Sudafrica, un paese che per la sua straordinaria vicenda politica e umana costituiva un ideale terreno di confronto, erano convenuti 194 paesi: migliaia di persone delle etnie e dei colori più diversi, che permettevano quasi di toccare con mano la pluralità del mondo globalizzato, e costituivano una rappresentanza forte, e finalmente visibile, delle comunità più deboli, delle minoranze più dimenticate, delle nazioni più povere; ogni giorno, nell’aula della plenaria e negli spazi delle Ong, era possibile ascoltare la voce delle vittime, i loro racconti strozzati dal pianto, la loro richiesta di giustizia. C’erano anche testimonial d’eccezione, come Rigoberta Manchù o Jesse Jackson, e voci ispirate, come quella di Harry Belafonte o Nelson Mandela.
Sorde a tutto questo, la maggior parte delle delegazioni – certo, con diverse motivazioni, ma con analoga determinazione – hanno scelto la durezza dell’intransigenza, facendo intravedere chiaramente, dietro un invalicabile, ottuso muro difensivo, una preoccupante volontà di conflitto. I diritti dopo l’ 11 settembre L’attacco alle Torri Gemelle, con gli avvenimenti immediatamente successivi, dalla campagna contro il terrorismo internazionale alla guerra contro l’ Afghanistan, dall’acuirsi del conflitto mediorientale alla minaccia di guerra contro l’Iraq, è la causa principale dell’allarmante situazione di restringimento dei diritti umani cui abbiamo assistito nell’ultimo anno, soprattutto in occidente. In questo senso, se ragioniamo, con crescente preoccupazione, intorno a un processo ormai palese di restringimento progressivo e diffuso dei diritti umani, vanno probabilmente individuate anche altre cause che nell’ultimo anno si sono aggiunte alla situazione politica creatasi dopo l’11 settembre.
Si tratta con ogni evidenza di fattori non isolabili dal contesto, ma con una autonoma capacità di incidere: parliamo della vittoria delle Destre nella maggior parte dei paesi occidentali, spesso supportata da un pericoloso salto di qualità – anche elettorale – dei diversi ‘localismi’ (dal movimento di Le Pen alla nostra Lega); e della mancata ripresa economica, che ha caratterizzato soprattutto il 2002.
Il collegamento con l’effetto Twin Towers non spiega se non parzialmente il peso di questi fattori – già presenti, peraltro, prima degli avvenimenti di New York. La restrizione dei diritti dei cittadini extra-comunitari, per importanti settori delle Destre europee, è parte integrante dei programmi politici, e cavallo di battaglia delle competizioni elettorali. Non c’era bisogno dell’equazione immigrati=terroristi, che pure è stata sfrontatamente utilizzata, per convincere un elettorato che da anni traduce le sue insicurezze in xenofobia e razzismo. D’altra parte, lo stesso fallimento di Durban è lo specchio di una mancanza di consapevolezza che a sua volta si riflette sulla incapacità europea di confrontarsi a livello comunitario sulle politiche d’immigrazione. Restrizioni e discriminazioni hanno colpito e tendono a colpire, naturalmente, i soggetti che si rivelano più deboli in questa situazione: da una parte minoranze etniche, rifugiati, migranti – veri e propri modelli paradigmatici della ‘diversità’; dall’altra quelli che si definiscono ‘nuovi poveri’. Una globalizzazione zoppa Probabilmente la ragione di quanto sta accadendo – e in questo senso l’anno appena trascorso ha visto un vero e proprio precipitarsi della situazione – va cercata nelle profonde contraddizioni che segnano la direzione presa dal processo di globalizzazione. Sono ancora recenti , in questo senso, alcuni segnali con forti valenze simboliche: come l’immensa nube scura prodotta dall’inquinamento dell’arretrato sviluppo industriale del sud-est asiatico, che minaccia di raggiungere i nostri cieli ‘puliti’; lo sconvolgimento climatico che ha causato le grandi inondazioni di questa estate in tutta l’Europa centrale, cartina di tornasole dell’insostenibilità ecologica del nostro modello di vita; o in altri campi i veti opposti dagli Stati Uniti agli interventi del Tribunale penale internazionale, da cui dovrebbe essere immune proprio la più grande potenza mondiale; o lo sconquasso finanziario di alcune grandi multinazionali americane, indizio della fragilità profonda dell’economia che oggi domina l’intero pianeta. In un sistema basato sullo squilibrio, sulle differenti opportunità, su uno sfruttamento straordinariamente miope delle risorse materiali ed umane del pianeta, la mondializzazione sposta i confini, ma non la necessità dell’esclusione.
Una tela a colori (2002) Come sempre quando si entra nel cuore dei problemi, le domande aumentano anziché diminuire: se non altro perché si sente l’esigenza di chiarirsi le idee. Io credo che questo discorso non debba essere inquadrato con schematismo: essere uguali, essere diversi, l’equilibrio fra l’identità da cui si arriva, e invece la nuova identità, la nuova società in cui si è accolti: non è un raccordo semplice; perché oggi non sono di fronte identità forti, ma invece identità che si mettono in discussione. Io considero l’immigrazione una grande occasione proprio perché ci aiuta a metterci in discussione.
L’Italia è stata un paese troppo chiuso, troppo provinciale, è arrivata tardi all’esperienza dell’altro, anche se all’interno della nostra società esiste un mix di religioni, di culture, di ambienti sociali, di provenienze regionali notevole. Torniamo ad alcuni concetti della pedagogia inteculturale per cercare di capire oggi come va interpretata.
Il secondo elemento è l’identità. Oggi questo tema dell’identità non è semplice come poteva sembrare: dobbiamo prima di tutto stare attenti, non dobbiamo credere che sia qualcosa semplice da definire. Proprio come, rispetto alla cultura scolastica siamo costretti a prendere le distanze, ad assumerci l’onere, il peso delle scelte, e quindi non dare per scontato che i programmi siano giusti, che i libri di testo funzionino, che le prospettive che ci vengono date siano quelle che ci possono appartenere, così rispetto all’identità noi abbiamo e dobbiamo avere un rapporto fortemente dialettico. Io sono italiano quanto voi, ma diversamente da voi: ci sono diversità religiose, culturali, politiche, diversità di mentalità; l’identità oggi va ridiscussa, perché ciascuno di noi non può più darla per scontata. Identità è qualcosa che siamo costretti a costruire e a ricostruire nel tempo: e questo in realtà facilita l’incontro con gli altri, che vivono la loro identità in modo altrettanto dialettico. A livello di educazione interculturale, noi non possiamo dare per scontata l’identità dell’altro, non possiamo ipostatizzare la sua cultura di provenienza. Noi abbiamo di fronte identità in movimento, identità transitorie e l’educazione interculturale deve tenerne conto e chiedersi “Come viene trasformata l’identità del gruppo dalla presenza di qualcuno di estraneo? Quali sono gli elementi di identità che persistono e quelli che invece si trasformano? Quali sono gli elementi di questa identità plurale che invece trovano il sostegno, l’aggancio sull’identità dell’altro?” Prima parlavamo di autonomia: il confine me lo disegno io, me lo disegno di volta in volta: e allora il mio confine può essere più allargato o più ristretto, può escludere o comprendere altri (altre culture). L’ultimo concetto è quello della globalizzazione. La situazione attuale di globalizzazione, sembrerebbe trasmettere un’immagine di un mondo in cui tutto si tiene, in cui tutto si può ritrovare: il villaggio globale. Eppure esistono ancora differenze e discriminazioni. Ma noi non possiamo volere un mondo dove hai successo perché qualcun altro è “fregato”: questo non può funzionare, perché le contraddizioni finiscono per ricadere su di te! Tutto quello che hai creduto di allontanare torna come un boomerang a minacciarci. Le persone che si trovano in difficoltà devono essere aiutate a partire dalle nostre stesse condizioni: una globalizzazione che tenga conto delle differenze.
E’ come la democrazia: se c’è una persona che non è libera, nemmeno tutti gli altri sono liberi. La democrazia o è inclusiva o non lo è, non ci può essere una democrazia che esclude anche solo qualcuno.
Immaginate...(2002) Immaginate…No, non vi chiediamo di immaginare un mondo migliore; un mondo senza contraddizioni, senza discriminazioni, o addirittura – in giorni come questi, poi – un mondo senza conflitti. Un paese, pensate, dove il valore dei diritti e il senso della rappresentanza e della democrazia sono così sentiti, che oltre la metà dei lavoratori stranieri sono iscritti al sindacato; dove lo spazio e lo spirito di iniziativa sono così diffusi, che ci sono oltre centomila immigrati titolari di imprese! Immaginate un paese dove la presenza e il supporto degli immigrati sono così significativi, che oltre quattrocentomila famiglie contano su di loro per assistere le mogli, i figli, le persone anziane; dove l’ingresso nelle scuole di oltre centoventimila bambini e ragazzi stranieri – oltre a fornire una straordinaria occasione di confronto interculturale – consente il lavoro di quasi venticinquemila insegnanti e un numero altrettanto consistente di personale scolastico. Un paese che grazie al contributo degli immigrati e dei loro figli, riesce a mantenere un livello demografico sufficiente a non invecchiare troppo in fretta, con tutti i danni economici e sociali che questo comporterebbe. Provate a immaginare un paese dove al di là dei pregiudizi e degli stereotipi, e nonostante gli squilibri delle diverse condizioni sociali, l’onestà e il senso civico sono così diffusi tra gli stranieri che il loro tasso di detenzione è più basso di quello locale. Un paese dove, nonostante la novità, l’impatto e le diffidenze dovute alla diversità di lingua, pelle, religione e cultura, i matrimoni misti crescono continuamente, e oltre diecimila nuove coppie uniscono ogni anno uomini e donne di diversa provenienza ed origine. Immaginate, non è poi così difficile: quel paese esiste, e si chiama Italia. L’Italia che emerge dalle statistiche, dai numeri e dai dati, ma anche dalle ricerche, dalle esperienze e dalle testimonianze del nostro lavoro: un paese che si sta avviando – se non interverranno misure contraddittorie ad ostacolarne il cammino, se non prevarranno i pregiudizi e le paure – a forme di convivenza ragionevoli e rispettose delle molteplici identità di una società sempre più multietnica.
Analizzare l’immagine del sud: “L’uomo Del Monte” (2003)
2. Detto questo, è però importante essere consapevoli che dall’altra parte noi riceviamo – e ci costruiamo – comunque un’immagine del terzo mondo, a prescindere dalla mancanza o manipolazione delle notizie, e dall’assenza di corrispondenti. Certe immagini generali le abbiamo, magari provenienti da media diversi da quelli delegati all’informazione: da un film, da un fumetto, o dalla pubblicità. Queste immagini si costruiscono sugli stereotipi, i luoghi comuni e i pregiudizi che si sono venuti radicando in noi sin dall’infanzia. Esse sono il minimo portato che perfino un paese chiuso e provinciale come l’Italia riesce ad avere. Abbiamo così, per esempio, delle idee precostituite sul mondo arabo, sull’Africa nera, o sull’Asia più lontana; paradossalmente a dare l’immagine di quei Paesi hanno contribuito di più i film di Bruce Lee, anziché il lavoro serio di alcuni inviati speciali, con le loro corrispondenze dalla Cina o dal Giappone. Nelle redazioni, nelle università, nel cinema coloro che si occupano di terzo mondo sono considerati degli eccentrici, quasi si trattasse di un interesse di bottega. 3. Con l’Archivio dell’Immigrazione, ma anche con interventi del Ministero degli Esteri,
cerchiamo di individuare ed analizzare l’immagine del sud del mondo nei media. Occorre però, nella prospettiva che abbiamo visto, andare oltre l’informazione: non basta infatti analizzare, per quanto sia importante, telegiornali e quotidiani, ma occorre rivolgere la nostra attenzione anche ai fumetti, alle soap-operas ed alla fiction in generale, compresi i cartoni animati. I primi cinque minuti di Aladdin, una produzione della Walt Disney, sono in questo senso esemplari, perché vi vengono riversati tutti i pregiudizi e gli stereotipi possibili sul mondo arabo. Sin dall’inizio del film gli spettatori, i bambini per primi, ma anche i loro genitori, sono ‘informati’ di tutto ciò che occorre sapere sul mondo arabo: un paese pieno di imbroglioni, odalische, cammelli, scimitarre, incantatori di serpenti, fakiri e via stereotipizzando; inducendoci a credere di sapere tutto su questo mondo e spegnendo così la curiosità di avvicinarlo e conoscerlo nella sua realtà. 4. Perché dunque ci confrontiamo proprio con la pubblicità? Perché essa porta con sé un
valore aggiunto; da quando la pubblicità ha cominciato ad utilizzare i mezzi di comunicazione di massa ha dovuto necessariamente offrire qualcosa di più che non la semplice proposizione del prodotto oggetto del messaggio. La birra Peroni ha sempre venduto una ragazza “bionda”, mai semplicemente una birra. La pubblicità, in questo senso, ‘vende’ valori, offre modelli di vita mediante la rappresentazione di immagini che hanno molta presa sul pubblico, proprio dal momento che sono immagini dense di valori. 5. In sintesi la gente è contenta, perché questo ci rassicura; nello spot la Del Monte propone e rappresenta un ordine costituito, dove la multinazionale ha la sua funzione, dove gli indigeni hanno anch’essi il loro ruolo e ciascuno trova il suo posto. Io sono primitivo, ma è necessario che io lo sia e sono felice di esserlo nei mari del sud. Per fortuna c’è qualcuno nel mondo che si accolla il compito di raccogliere la frutta, il “nostro” agente Del Monte, che con il suo know-how, la sua competenza, ruba l’anima alla frutta e ce ne porta il succo. Immagini simili le trovate nelle agenzie di viaggi, dove una bella ragazza, in vesti di gentile servetta, ci offre i prodotti della sua terra. Questo è il rapporto che c’è fra noi e il sud del mondo. È un rapporto giusto, equilibrato, condivisibile? Purtroppo, credo che abbiano maggiore incisività questo tipo di immagini pubblicitarie e vacanziere che non il lavoro che noi, “fissati” col terzo mondo, cerchiamo di fare da anni.
I muri dentro (2008) Muri frontiere sbarre cancellate delle labbra e tra i denti.
Cooperazione, una chiave per la politica internazionale (2012) Rilanciare la Cooperazione allo sviluppo italiana: ci proveremo, nei primi giorni di ottobre, con il ministro Riccardi, nel Forum che si terrà a Milano – la prima Conferenza nazionale su questo tema da oltre vent’anni. Ci saranno il Governo, le istituzioni, le Regioni, gli Enti locali, le tante Organizzazioni non governative che operano a livello internazionale. E oltre agli addetti ai lavori interverranno le associazioni della società civile, i ricercatori, le imprese, i rappresentanti dei paesi in via di sviluppo; e gli operatori dei media, cui si addebita – non senza ragioni – la diffusione presso l’opinione pubblica di un’immagine antiquata, distorta ed emergenziale degli interventi e del concetto stesso di cooperazione: riflesso di un rapporto paternalistico con il Sud del mondo, incapace di crescere da solo, sempre bisognoso dell’assistenza e del know how dei cosiddetti ‘donatori’. Oggi questa immagine – e questo modo di intendere la cooperazione – sono largamente superati: la mondializzazione, con la tendenza verso una sempre maggiore inter-dipendenza tra le nazioni e le regioni del pianeta, l’emergere di nuovi protagonisti sulla scena mondiale, la consapevolezza d’un destino comune, ha profondamente mutato i rapporti internazionali. E non soltanto a livello politico ed economico: ma anche in riferimento a temi come l’ambiente, l’informazione, la cultura, la religione. Cittadinanza globale – un concetto che ha avuto antesignani importanti proprio nel nostro paese – vuol dire dover mettere a confronto modelli diversi di sviluppo. Significa – e la difficile situazione attuale ce lo conferma – dover mettere in crisi lo stesso concetto di sviluppo, per parlare di sostenibilità e di responsabilità comuni. Anche la nostra cooperazione ha dovuto temerne conto, ed è significativamente cambiata in questi anni, mettendo in campo modelli diversi e riconoscendo attori nuovi fuori e dentro il nostro paese, soggetti di una cooperazione che viene dal cuore della società civile, dalle migliori forze imprenditoriali e dalle entità del decentramento territoriale, così importanti nella nostra tradizione. Così, la cooperazione – intesa infine come partenariato, come scambio alla pari di saperi, di competenze, di soluzioni nuove per un mondo che cambia – diventa la chiave di una politica internazionale moderna. Così, la forza di un paese come l’Italia, non particolarmente ricco di risorse materiali, ma ricco invece di cultura e di ‘saper fare’, è proprio in questo tipo di cooperazione, in questo scambio di conoscenze, nella capacità di dialogo, di apertura culturale, di rapporti centrati sulle persone, sull’uomo. Lo abbiamo visto nei tanti interventi italiani di questi anni nei paesi devastati dai conflitti, come l’Iraq; nelle regioni prosciugate dalla siccità, come nel Sahel; nelle aree colpite da emergenze climatiche, come per lo Tsunami; nei paesi agitati dal vento impetuoso delle Primavere arabe: in luoghi e momenti in cui cooperazione non voleva dire soltanto sacchi di riso e ospedali da campo – che pure sono arrivati puntualmente, e sono serviti a ridurre l’emergenza - ma soprattutto significava comunicazione, intervento sociale sulle fasce più vulnerabili, empowerment femminile, ricostruzione del tessuto imprenditoriale, restauro del patrimonio culturale, formazione di competenze, educazione alla democrazia e alle sue istituzioni. L’orizzonte in particolare dei paesi del Mediterraneo, del continente africano, delle nuove nazioni emergenti, è congeniale a questa prospettiva di cooperazione. Ricordiamo che questo tipo di approccio ha permesso al nostro paese di restare protagonista della cooperazione – apprezzato dai paesi partner, in particolare quelli nelle condizioni più drammatiche – anche in anni, come i più recenti, segnati da pesanti riduzioni degli stanziamenti per l’Aiuto allo sviluppo e dalla difficoltà di mantenere alcuni impegni internazionali. Se dunque sfidiamo l’Italia, e noi stessi, a rilanciare la cooperazione, è perché le riconosciamo un ruolo centrale nell’attuale contesto di globalizzazione e inter-dipendenza; e lo consideriamo uno strumento chiave per una nuova politica internazionale, informata a questo spirito di partenariato. (ottobre 2012)
Fake news, un’infodemia globale (2020)
Nell’anno della più grande pandemia mondiale dei tempi moderni, il Covid 19, si è registrata anche una impressionante epidemia di fake news: l’incertezza della provenienza del virus, delle vie di diffusione, della natura stessa della malattia e della rapidità del contagio, ha contribuito a creare una “infodemia” globale. Non soltanto sul Coronavirus, ma anche sui temi – parte dello stesso pacchetto mediatico – dell’immigrazione, degli sbarchi “clandestini”, dei migranti come portatori della più grave delle malattie, la diversità. La caduta del governo di centro-destra, e l’emarginazione mediatica del suo leader più popolare, Salvini, avevano restituito un minimo di verità e attenzione sul fenomeno dell’immigrazione e sui suoi effetti nel nostro paese. L’insorgere drammatico del Coronavirus ha distolto, nei primi mesi della pandemia, l’attenzione sull’immigrazione; la quale, naturalmente, è drasticamente diminuita nel primo semestre dell’anno, per poi riprendere gradualmente in prossimità dell’estate. Poca, e riduttiva attenzione si è registrata anche al diffondersi dell’epidemia nei paesi più poveri: sia nel Sudest asiatico che in Sudamerica, e soprattutto in Africa. Altro segnale di quella visione eurocentrica che continua a disegnare il “terzo mondo” come un insieme quasi indistinguibile di paesi poveri, malati, incapaci di governare e gestire non soltanto le loro ricchezze - che da secoli abbiamo depredato – ma anche la propria salute, le proprie culture, la propria storia. Ed è da questi paesi, con questa irriducibile diversità, queste mancanze, questa povertà, questa presunta incapacità di provvedere a se stessi, che gli immigrati arrivano alle nostre coste: quasi a voler confermare i nostri comodi, indistruttibili pregiudizi nei confronti di loro e dei loro paesi. Su questa montagna di falsità, di stereotipi, di ipocrisie, di immagini distorte, di discorsi dell’odio, costruiamo gran parte della nostra governance, il nostro governo delle politiche migratorie e anche dei rapporti con i paesi di provenienza: si guardi al caso della Libia, tristemente sintomatico della nostra incapacità di gestione dei rapporti, di un minimo di cooperazione, di una strategia anche soltanto diretta ai nostri interessi energetici e politici… Stupisce che la disinformazione populista abbia tanta forza nel convincere il pubblico dei media più diffusi: probabilmente le persone che si imbevono di queste idee sono difficilmente recuperabili, leggono anche i media tradizionali solo per sentirsi confermati nelle loro false convinzioni… Le fake news infatti non sono soltanto le notizie false, ma le notizie inventate, costruite ad arte per farci vivere e percepire una certa realtà. Così cresce una pericolosa polarizzazione della società, tra chi vive nell’odio e nel pregiudizio e chi cerca, con sempre maggiore difficoltà, di capire quello che succede, e di proporre le proprie ragioni affidandosi al buon senso e a fonti attendibili. La quantità al posto della qualità, questo il problema della rete. E una agenda dettata non da strategie editoriali o piani di comunicazione, ma dai social network. In effetti i colossi del web, da facebook a twitter, non fanno abbastanza per frenare il diluvio di contenuti falsi o distorcenti su temi come l’immigrazione o, appunto, la pandemia del Covid 19. Il pubblico più accorto chiede rettifiche, disintossicazione – come scrive Jaime d’Alessandro sulla “Repubblica” -- dagli algoritmi che decidono cosa mostrare agli utenti. Ma la grande maggioranza del pubblico non è in grado di reagire con autonomia di giudizio. La pandemia di notizie false o sbagliate – due categorie attigue, ma diverse – si diffonde perché si è aperto uno spazio che non sappiamo ancora dominare, dirigere verso la direzione giusta, maneggiare con esperienza, affrontare con gli strumenti adatti. Il fenomeno delle fake news deriva dal fatto che si stanno mettendo a disposizione di tutti mezzi di comunicazione insieme facili da usare e capaci di raggiungere un pubblico enorme e indifferenziato; senza che la gran parte degli utenti abbiano avuto modo e mezzi per imparare a gestire questi media. Non siamo ancora in grado di gestire il continuo flusso di comunicazione: e ci facciamo orientare, sedurre, travolgere da informazioni che ci convincono, perché non siamo capaci di dominarle. E' come se ci avessero messo a disposizione una nave senza che noi sapessimo cosa siano le vele, come funzioni il motore, a cosa serva un sestante …. Analizzando le rappresentazioni dei migranti che circolano nella nostra sfera pubblica appare chiaro che le notizie e le immagini diffuse dai media, così come le dichiarazioni e i proclami degli attori politici, non rendono giustizia al profilo demografico, economico e sociale del fenomeno migratorio: è infatti minima l’attenzione rivolta alla vita quotidiana degli stranieri presenti in Italia, alla comprensione dei loro costumi e culture, al riconoscimento del loro contributo al paese. Si tratta di un divario tra l’immigrazione reale e l’immigrazione mediatica che non solo confonde la percezione collettiva relativa alla presenza degli stranieri, ma alimenta quei processi di categorizzazione e di etichettamento da cui scaturiscono stereotipi e discriminazioni nei confronti dell’altro. Dalla relazione finale della Commissione parlamentare Jo Cox sulla intolleranza, la xenofobia, il razzismo e i fenomeni di odio, nel 2016, si evinceva che l’Italia fosse il paese con il più alto tasso di disinformazione sull’immigrazione. Facebook, soltanto l’anno scorso, ha dovuto chiudere 23 pagine italiane, con oltre 2,46 milioni di followers, che condividevano notizie false e contenuti divisivi su migranti, vaccini e ebrei, una vera macchina del fango in grado di diffondere odio e scontri. Tra le fakes più diffuse sul tema dell’immigrazione, quella che I migrantipercepiscano 35 euro al giorno dallo stato; che i migranti facciano la bella vita negli hotel di lusso; che ci rubino il lavoro; che monopolizzino gli aiuti sociali e facciano crollare l'assistenza sanitaria; che gli irregolari siano quelli che arrivano con i barconi, mentre il maggior numero di irregolari (75%) è costituito da immigrati che perdono il lavoro e di conseguenza il diritto di vivere in Italia. Purtroppo combattere le fakes soltanto con una informazione”puntuale” può essere inutile; occorre capire come le notizie si propagano sul web, cosa spinge la gente a scegliere solo quello che conferma le sue opinioni, e soprattutto i suoi pregiudizi. Se la connessione web.e l’accesso alla rete – come ha chiesto recentemente Prodi in un appello al Presidente del Parlamento europeo – deve essere un diritto dell’uomo, se il Consiglio per i diritti umani dell’Onu ha adottato una risoluzione sulla protezione dei diritti umani su internet, si deve innanzi tutto assicurare trasparenza, fornire a tutti la capacità di capire cosa sia falso e cosa sia vero; e reprimere e sanzionare severamente i discorsi dell’odio…
Nel suo bellissimo saggio “Il lembo del mantello” (1991), il cardinale Martini scriveva che essere completi significa dare al lettore le informazioni necessarie su un fatto, permettendogli di distinguere quanto io sia riuscito a raccogliere, quali siano le mie fonti e quale sia il mio punto di vista. “Si tratta di sostituire alla cultura di un’asettica presunta obiettività, una cultura del punto di vista. Se il punto di vista di partenza è dichiarato e motivato, si può sviluppare una civiltà della tolleranza, del pluralismo, del dialogo costruttivo. Diversamente contribuiamo a erigere una Babele, una località perversa dove si scontrano presunte e parziali certezze i cui artefici tanto più si accaniscono nel sostenerle e nel difenderle, quanto meno posseggono il senso del relativo e del limite”. (Dal Dossier statistico sull'immigrazione, Idos, 2020)
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