
Alla Conferenza di Durban
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Razzismo / Conferenza di Durban 2001
Nel settembre 2001, si è tenuta a Durban,
in Sudafrica, la Terza Conferenza delle Nazioni Unite contro il Razzismo, le discriminazioni razziali, la xenofobia e la correlata intolleranza.
E’ stata la prima delle grandi Conferenze internazionali a tenersi nel nuovo millennio, ed è particolarmente significativo che si sia svolta proprio in Sudafrica: uno dei paesi che ha più sofferto delle discriminazioni razziali; la nazione che con il regime dell’Apartheid (definito dalle stesse Nazioni Unite “un crimine contro l’umanità”) aveva tradotto in istituzione, in legge dello Stato, la separazione e l’odio razziale.
Ma anche la nazione che dopo una ‘miracolosa’ transizione alla democrazia, e uno straordinario sforzo di riconciliazione – non basato sulla rimozione, ma sulla verità e il
perdono – oggi si propone al mondo intero come un esempio di convivenza multietnica. Non mancano le contraddizioni e le difficoltà, naturalmente: ma se il tentativo di costruire una democrazia veramente multiculturale, capace di coniugare identità e differenza, dovesse riuscire, allora il paese di Nelson Mandela costituirebbe un punto di riferimento per tutta l’umanità. Già in questi mesi, con un altro importante incontro nella stessa Durban, - dove la vecchia Organizzazione per l’Unità Africana, l’OUA, si è riconvertita in Unione Africana, sul modello di quella europea – e la seconda Conferenza sull’ambiente, tenutasi a Johannesburg, il Sudafrica si è confermato come sede naturale per il confronto tra Nord e Sud del mondo sui temi dello sviluppo e della globalizzazione.
Il naufragio della Conferenza
Il naufragio della Conferenza mondiale sul razzismo, proprio alla vigilia dei tragici avvenimenti dell’11 settembre, ha acquistato un significato che va molto al di là degli stessi risultati del consesso. Il fallimento, reso evidente dal ritiro delle delegazioni statunitense e israeliana a metà lavori, era stato a mala pena velato da una fragile operazione diplomatica, condotta sotto la regia del Presidente della Conferenza, la signora Zuma – già Ministro degli Esteri del Sudafrica. L’Assemblea aveva adottato due documenti di compromesso sulle questioni più spinose: il problema palestinese e quello delle responsabilità e degli eventuali ‘risarcimenti’ per i crimini del passato.
Verso Israele, che i paesi arabi pretendevano fosse definito uno ‘stato razzista’, il primo documento evitava qualsiasi critica diretta; pur riconoscendo ai palestinesi il diritto all’autodeterminazione ed esprimendo ‘preoccupazione’ per le loro difficoltà sotto l’occupazione straniera. Quanto al passato, il secondo documento riconosceva la ‘tragedia’ della schiavitù e della tratta degli schiavi, ma non esprimeva ‘scuse’; e pur promettendo assistenza, cooperazione e passi per la cancellazione del debito, facendo riferimento ad una sorta di Piano Marshall per l’Africa (la New African Initiative proposta da alcuni capi di Stato del continente nero), non accettava di considerarli un risarcimento, come avrebbero voluto gli africani e molti altri paesi del Sud del mondo.
Già prima delle Twin Towers, insomma, l’attenzione dei media internazionali, e degli stessi delegati (anche a causa della cattiva organizzazione dell’Alto Commissario per i diritti umani, la signora Mary Robinson) si era concentrata quasi soltanto su questi argomenti ‘politici’, lasciando in ombra l’emergere nel mondo globalizzato di nuove, più articolate e quindi più pericolose, forme di razzismo e di intolleranza. L’11 settembre, con la sua perentoria drammaticità, ha insieme distolto definitivamente
l’attenzione dell’opinione pubblica, e dato un senso particolare al conflitto, polarizzandolo a scapito di ogni analisi capace di tener conto della ‘complessità’ attuale.
I risultati di Durban
In realtà, dalla Conferenza di Durban, che aveva visto l’attiva partecipazione di oltre cento rappresentanze governative, e alla quale si era affiancato un affollato Forum delle Organizzazioni Non Governative (Ong), erano usciti due documenti importanti: la “Political Declaration” e le “General Conclusions”, articolate su diverse sezioni – che sostanzialmente si proponevano come linee guida per una azione più efficace ed incisiva contro tutte le espressioni di razzismo, discriminazione ed intolleranza; prendendo spunto dalle best practices sperimentate nei diversi paesi, e confrontandosi con i problemi connessi ai nuovi strumenti di comunicazione, alle forme contemporanee di riduzione in schiavitù, ai conflitti etnici, alla xenofobia contro gli immigrati.
I due documenti – usciti peraltro molti mesi dopo la Conferenza - contengono molti articoli di grande importanza su temi come la protezione delle vittime del razzismo, la lotta contro il traffico delle persone, le misure di prevenzione e sensibilizzazione, le proposte educative, il rapporto con i media e l’uso delle nuove tecnologie, l’affermazione dei diritti delle minoranze, dei lavoratori migranti, dei richiedenti asilo, dei rifugiati e delle loro famiglie; così come l’individuazione e il riconoscimento di un’ampia gamma di grounds, ovvero basi della discriminazione, che vanno dal colore della pelle alla lingua, alla religione, al sesso o all’orientamento sessuale, alla cultura, alla provenienza etnica, alle cosidette discriminazioni ‘multiple’, che si intersecano sulla pelle dei soggetti più deboli, come le donne o i bambini. Infine, l’affermazione forse più significativa, quella che il razzismo ci riguarda tutti, essendo presente, anche se in forme diverse, in ciascuno dei nostri Stati.
Era proprio questo il problema di fondo, reso poi chiaro da quanto accaduto: ogni paese ha i suoi problemi, e non ha intenzione di confrontarcisi, e ammettere le proprie responsabilità: l’India ha i suoi ‘intoccabili’, i paesi islamici le discriminazioni di genere, Israele l’occupazione dei territori, gli Stati Uniti l’eredità della schiavitù, Francia o Gran Bretagna le colpe del colonialismo; l’intera Europa, poi, è messa in crisi dalla questione degli immigrati.
La conferenza di Durban aveva quindi visto, in alcuni casi, l’atteggiamento schizofrenico di paesi come Cuba, il Sudan o l’Iran, che ignorando senza pudore i propri problemi interni si proponevano come indefettibili sostenitori dei diritti umani; e da parte di quasi tutti i partecipanti – primi fra tutti i paesi occidentali, con pochissime eccezioni, tra cui è giusto annoverare la nostra Italia – la mancanza di qualsiasi volontà di mettersi in discussione, di accettare il confronto, di aprirsi a un dialogo franco e costruttivo. Le intese diplomatiche, in cui si sono distinti gli Ambasciatori di paesi come la Norvegia, il Messico, il Brasile, il Belgio, la stessa Italia, e le distanze prese con molta chiarezza dalle nostre Organizzazioni non governative nei confronti delle posizioni più estremistiche emerse nel Forum delle Ong, non sono bastate a mutare il segno negativo della Conferenza.
Quello che quindi ha reso veramente amara la lezione di Durban, ancora prima della tragedia delle Torri gemelle – che a noi, come ad altri osservatori, non è sembrata senza relazioni con quanto accaduto alla Conferenza – è stato proprio il rifiuto del dialogo. Eppure In Sudafrica, un paese che per la sua straordinaria vicenda politica e umana costituiva un ideale terreno di confronto, erano convenuti 194 paesi: migliaia di persone delle etnie e dei colori più diversi, che permettevano quasi di toccare con mano la pluralità del mondo globalizzato, e costituivano una rappresentanza forte, e finalmente visibile, delle comunità più deboli, delle minoranze più dimenticate, delle nazioni più povere; ogni giorno, nell’aula della plenaria e negli spazi delle Ong, era possibile ascoltare la voce delle vittime, i loro racconti strozzati dal pianto, la loro richiesta di giustizia. C’erano anche testimonial d’eccezione, come Rigoberta Manchù o Jesse Jackson, e voci ispirate, come quella di Harry Belafonte o Nelson Mandela.
Sorde a tutto questo, la maggior parte delle delegazioni – certo, con diverse motivazioni, ma con analoga determinazione – hanno scelto la durezza dell’intransigenza, facendo intravedere chiaramente, dietro un invalicabile, ottuso muro difensivo, una preoccupante volontà di conflitto.
Così, all’ostruzionismo distruttivo degli islamici, all’estremismo di alcune Ong africane, all’ipocrisia di alcuni paesi arabi, più palestinesi del re, si è contrapposta la fuga degli americani da ogni responsabilità, e da qualsiasi rendiconto economico; e l’arroganza degli altri occidentali, ostinati a non scendere al livello degli altri, a negarsi ad ogni confronto sui contenuti, a preferire le formule astratte agli impegni concreti, a non accettare di legare aiuti e responsabilità, a mantenere il paternalistico atteggiamento di chi decide come, quando e in favore di chi distribuire più equamente giustizia e ricchezza nel mondo.
Non erano passati due giorni dalla conclusione della Conferenza, quando abbiamo imparato tragicamente che la chiusura di ogni spazio di dialogo lascia il campo soltanto al fanatismo e al terrore.
I diritti dopo l’ 11 settembre
L’attacco alle Torri Gemelle, con gli avvenimenti immediatamente successivi, dalla campagna contro il terrorismo internazionale alla guerra contro l’ Afghanistan, dall’acuirsi del conflitto mediorientale alla minaccia di guerra contro l’Iraq, è la causa principale dell’allarmante situazione di restringimento dei diritti umani cui abbiamo assistito nell’ultimo anno, soprattutto in occidente.
L’offensiva terroristica, collegata in particolare al fanatismo islamista, ha giustificato gravi restrizioni – impensabili nel recente passato - alla libertà individuale, alla libertà di movimento e perfino alla libertà d’espressione; nonchè un inasprimento delle misure preventive e repressive verso gli stranieri e verso i prigionieri di guerra tale da configurare, secondo agenzie come Amnesty International, una situazione di rischio per gli stessi diritti fondamentali. Si è addirittura tornati a parlare della possibilità di giustificare l’uso della tortura per casi di terrorismo.
Cosa ancora più grave, l’effetto dello choc provocato dall’11 settembre si è presto riverberato – specialmente in Europa – sul mondo dell’immigrazione, visto come terreno di coltura del terrorismo anti-occidentale. Sono quindi state prese quasi ovunque misure restrittive per i visti, i transiti, i permessi di soggiorno, i ricongiungimenti familiari: una tendenza recepita in pieno nella nuova legge per l’immigrazione (Bossi-Fini) proposta dal Centro-destra nel nostro paese, che costituisce un preoccupante passo indietro rispetto alla normativa precedente (Turco-Napolitano) e perfino rispetto ai canoni dell’Unione Europea.
In questo senso, se ragioniamo, con crescente preoccupazione, intorno a un processo ormai palese di restringimento progressivo e diffuso dei diritti umani, vanno probabilmente individuate anche altre cause che nell’ultimo anno si sono aggiunte alla situazione politica creatasi dopo l’11 settembre.
Si tratta con ogni evidenza di fattori non isolabili dal contesto, ma con una autonoma capacità di incidere: parliamo della vittoria delle Destre nella maggior parte dei paesi occidentali, spesso supportata da un pericoloso salto di qualità – anche elettorale – dei diversi ‘localismi’ (dal movimento di Le Pen alla nostra Lega); e della mancata ripresa economica, che ha caratterizzato soprattutto il 2002.
Il collegamento con l’effetto Twin Towers non spiega se non parzialmente il peso di questi fattori – già presenti, peraltro, prima degli avvenimenti di New York. La restrizione dei diritti dei cittadini extra-comunitari, per importanti settori delle Destre europee, è parte integrante dei programmi politici, e cavallo di battaglia delle competizioni elettorali. Non c’era bisogno dell’equazione immigrati=terroristi, che pure è stata sfrontatamente utilizzata, per convincere un elettorato che da anni traduce le sue insicurezze in xenofobia e razzismo. D’altra parte, lo stesso fallimento di Durban è lo specchio di una mancanza di consapevolezza che a sua volta si riflette sulla incapacità europea di confrontarsi a livello comunitario sulle politiche d’immigrazione.
Ma la stessa mancata ripresa economica – secondo molti analisti – si sarebbe sentita anche senza l’effetto dell’11 settembre e della guerra: aggiungendosi agli altri fattori cui abbiamo accennato per acuire l’insicurezza e spingere alla ricerca di rassicuranti capri espiatori per la crescente disoccupazione, soprattutto giovanile.
Restrizioni e discriminazioni hanno colpito e tendono a colpire, naturalmente, i soggetti che si rivelano più deboli in questa situazione: da una parte minoranze etniche, rifugiati, migranti – veri e propri modelli paradigmatici della ‘diversità’; dall’altra quelli che si definiscono ‘nuovi poveri’.
Sono infatti apparse nuove forme di povertà, e forme di discriminazione di nuovo genere: come quelle legate al Digital Divide, un divario tecnologico che non soltanto risulta sempre più forte tra i paesi avanzati dal punto di vista informatico e quelli lasciati indietro, a confrontarsi con un nuovo tipo di analfabetismo, ma che è presente anche all’interno delle società industrializzate.
Una globalizzazione zoppa
Probabilmente la ragione di quanto sta accadendo – e in questo senso l’anno appena trascorso ha visto un vero e proprio precipitarsi della situazione – va cercata nelle profonde contraddizioni che segnano la direzione presa dal processo di globalizzazione. Sono ancora recenti , in questo senso, alcuni segnali con forti valenze simboliche: come l’immensa nube scura prodotta dall’inquinamento dell’arretrato sviluppo industriale del sud-est asiatico, che minaccia di raggiungere i nostri cieli ‘puliti’; lo sconvolgimento climatico che ha causato le grandi inondazioni di questa estate in tutta l’Europa centrale, cartina di tornasole dell’insostenibilità ecologica del nostro modello di vita; o in altri campi i veti opposti dagli Stati Uniti agli interventi del Tribunale penale internazionale, da cui dovrebbe essere immune proprio la più grande potenza mondiale; o lo sconquasso finanziario di alcune grandi multinazionali americane, indizio della fragilità profonda dell’economia che oggi domina l’intero pianeta.
In un sistema basato sullo squilibrio, sulle differenti opportunità, su uno sfruttamento straordinariamente miope delle risorse materiali ed umane del pianeta, la mondializzazione sposta i confini, ma non la necessità dell’esclusione.
Il modello occidentale ha ancora bisogno di esclusione politica, e cerca così nuove sponde, si costruisce nuovi nemici, inventa i ‘paesi canaglia’ o mantiene artificialmente conflitti apparentemente risolvibili con un minimo di volontà politica. Forse possono spiegarsi così le spinte sempre più forti verso una insensata radicalizzazione culturale e religiosa, teorizzata dalle grottesche analisi sull’eplosione dei conflitti culturali (clash of civilisations), e acuita dalla forsennata campagna anti-islamica di questi mesi.
Non soltanto: il nostro sistema ha ancora bisogno – nonostante questo sembri contraddire la stessa logica del progressivo ampliamento dei mercati - di esclusione, o almeno emarginazione, economica: fuori dai confini dell’impero – finchè è possibile mantenere qualcuno fuori, come vogliono le politiche sintetizzate nell’imperativo “ognuno a casa propria”; o anche dentro i confini, all’interno stesso delle nostre società, con l’individuazione (come abbiamo visto) di nuovi capri espiatori, nuovi soggetti deboli, nuove diversità da discriminare.
In questa situazione siamo quindi tutti soggetti a rischio. Noi crediamo davvero che un nuovo mondo sia possibile: ma nella battaglia – questa, sì, apparentemente infinita – per un diverso ordine internazionale, le esclusioni passano anche di qui.
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